Prima dell'Unità d'Italia, le regioni meridionali della penisola erano tra le più industrializzate d'Europa. In particolare, Campania, Calabria e Puglia vantavano un tessuto industriale avanzato e diversificato, che collocava il Regno delle Due Sicilie ai vertici dell'industrializzazione europea.
In Calabria, le acciaierie di Mongiana rappresentavano un'eccellenza nel settore siderurgico. L’impianto disponeva di due altiforni per la produzione della ghisa, due forni Wilkinson per la lavorazione del ferro e sei raffinerie, impiegando complessivamente circa 2.500 operai. Sempre in Calabria, l’industria decentralizzata della seta dava lavoro a oltre 3.000 persone, contribuendo alla prosperità economica della regione.
La più grande fabbrica metalmeccanica del Regno si trovava a Pietrarsa, tra Napoli e Portici. Con oltre 1.200 addetti, stabiliva un primato per l’Italia dell’epoca, superando di gran lunga l’Ansaldo di Genova, che contava circa 400 operai. Pietrarsa si specializzava nella produzione di macchine a vapore, locomotive e motori navali, anticipando di ben 44 anni la nascita di colossi industriali come la Breda e la Fiat.
A Castellammare di Stabia, dalla fine del XVIII secolo, operavano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia. Qui fu costruita la prima nave a vapore italiana, il Real Ferdinando, varata quattro anni prima della prima nave a vapore inglese. Sempre a Castellammare vennero realizzate la prima nave a elica e la prima nave in ferro d’Italia, dimostrando l’elevato livello tecnologico raggiunto dal settore cantieristico napoletano.
Anche l’agricoltura beneficiava di notevoli innovazioni tecniche. In Puglia, la produzione di olio era supportata da impianti meccanici all’avanguardia, che ne incrementavano significativamente la resa. Le macchine agricole pugliesi erano considerate tra le migliori d’Europa e contribuivano all’eccellenza del settore primario.
L'Abruzzo si distingueva per la presenza di importanti cartiere, affiancate da quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana. La regione era anche rinomata per la produzione di lame e per le industrie tessili, che impiegavano numerosi lavoratori.
In Sicilia, l’industria dello zolfo costituiva un settore strategico, con esportazioni fiorenti, in particolare dalla provincia di Caltanissetta, una delle città più ricche e industrializzate del tempo. L’isola vantava inoltre porti commerciali di primaria importanza, da cui salpavano navi dirette in tutto il mondo, con particolare intensità verso gli Stati Uniti e le Americhe. La Sicilia ospitava anche una fiorente industria chimica, capace di produrre tutti i materiali sintetici conosciuti all’epoca, tra cui acidi, vernici e vetro.
Puglia e Basilicata erano importanti centri per la produzione tessile e laniera, con numerosi stabilimenti già motorizzati. Infine, Bari ospitava la Borsa più rilevante del Regno, un nodo cruciale per le attività finanziarie e commerciali del Sud Italia.
Tuttavia, dopo l’occupazione del Regno delle Due Sicilie da parte del governo sabaudo, iniziò un sistematico smantellamento del suo apparato industriale. Il governo di Torino adottò una politica di deliberata deindustrializzazione delle nuove “province meridionali”, con conseguenze devastanti per l’economia locale.
Pietrarsa, che nel 1862 fu teatro di un eccidio compiuto dai bersaglieri contro gli operai in sciopero, entrò in una fase di inesorabile declino. Nei cantieri navali di Castellammare di Stabia, 400 operai furono licenziati in tronco, mentre le acciaierie di Mongiana vennero rapidamente chiuse. La Ferdinandea di Stilo, con i suoi 5.000 ettari di boschi circostanti, fu svenduta per una cifra irrisoria a un colonnello garibaldino, giunto in Calabria al seguito delle truppe “liberatrici”.
Il Mezzogiorno, che prima dell’Unità aveva un’economia fiorente e competitiva a livello europeo, fu progressivamente impoverito e privato delle sue eccellenze industriali, subendo le conseguenze di una politica economica che privilegiò lo sviluppo del Nord a scapito del Sud.
La sistematica deindustrializzazione del Sud Italia, avviata dopo l’Unità, segnò l’inizio di un divario economico che ancora oggi persiste. La perdita delle grandi industrie e l’impoverimento delle infrastrutture portarono a un’emigrazione di massa, con milioni di meridionali costretti a lasciare la propria terra in cerca di lavoro e opportunità altrove.
Nonostante le difficoltà, il Mezzogiorno conserva ancora oggi le tracce del suo glorioso passato industriale: dai resti degli opifici storici ai porti che un tempo erano fulcro del commercio internazionale. Risvegliare la consapevolezza di questa eredità significa comprendere che il Sud non è sempre stato sinonimo di arretratezza, ma al contrario, è stato un protagonista dell’industrializzazione europea.
Recuperare questa memoria storica non è solo un esercizio del passato, ma un’opportunità per il futuro: la valorizzazione delle risorse locali, il rilancio delle attività produttive e una politica economica più equa potrebbero finalmente colmare il divario tra Nord e Sud, restituendo al Mezzogiorno il ruolo che un tempo gli apparteneva.